Perché la nostra gara è più seria di quello che sembra.
Non è per caso che la nostra gara sociale (intersociale, quando si riesce) si chiama "Festa di Primavera". Per i più giovani, lo sport dovrebbe essere sempre essere una festa e un gioco.
Nel quale gioco rientra ovviamente anche la competizione, ben prima di trasformarsi in agonismo vero e proprio.
Spesso si pensa - lo pensano anche diversi allenatori - che per preparare l'allievo a una gara basti lavorare sulla preparazione tecnica e atletica; mentale, al limite.
Cioè: ti insegno quello che devi fare, ti carico e ti butto nella mischia.
Ma per gareggiare occorre anche qualcosa di molto più importante e basilare.
Occorre saper vedere la gara come quello che unisce me e il mio avversario, non come quello che ci divide. Stessa passione, stesso impegno, condivisione della stessa esperienza.
Occorre saper distinguere tra me e il mio risultato: se uno è negativo, non vuol dire che lo siamo entrambi (e viceversa).
Occorre avere la fiducia che si può imparare dalle proprie esperienze e migliorarsi.
Tutto ciò è l'aspetto educativo delle competizioni.
Eppure questi concetti fondamentali sono relegati - quando va bene - a qualche discorso di circostanza o a qualche proclama sul social di turno, immancabilmente pieno di "like".
Chiacchiere su cui sono tutti d'accordo; ma che stanno a zero, soprattutto quando i comportamenti dicono ben altra cosa.
Quando nei palazzetti e sui campi da gioco vediamo ragazzini che piangono, solo per essere arrivati secondi invece che primi;
quando vediamo allenatori che urlano e si infuriano per un errore del proprio atleta;
quando vediamo pubblico e famiglie che contestano i risultati, magari litigando tra loro e con gli arbitri;
quando vediamo le medaglie del Trofeo dell'Oratorio pubblicizzate a tutta pagina sui siti o sui giornali locali;
quando vediamo bambini che si sentono male prima della gara, per la tensione nervosa;
quando vediamo offrire sul web le consulenze di "mental coach" per gestire lo stress o i problemi psicologici di piccoli sportivi di dieci-dodici anni...
(cose che tutti abbiamo visto almeno una volta)
...significa che qualcosa è andato irrimediabilmente storto.
La sportività, la serenità e la fiducia in sé stessi non sono scontate; non arrivano in automatico con la quota di iscrizione; non sono su un foglietto istruzioni, che basta leggere e ripetere prima di iniziare l'allenamento.
Vanno costruite nel tempo e con i giusti comportamenti. Con l'esempio. Con attività concrete e adeguate: come si fa con la preparazione motoria, fisica, tecnica.
La chiamerei "educazione all'agonismo": si può trovare un termine migliore, ma al momento non mi viene.
Il Karate moderno, come dicevo, nasce in Giappone espressamente come attività educativa, per insegnare a diventare padroni - io preferisco dire amici - del proprio corpo e della propria mente. Quindi non è nato come uno sport; ma oggi ha un lato sportivo che è preponderante, e anche in questo mette grande attenzione alla formazione a 360 gradi dei suoi atleti.
La nostra gara sociale, con la sua formula particolare e nel suo piccolo, è appunto una delle attività mirate alla crescita equilibrata dei ragazzi.
Favorisce l'unione tra i partecipanti, il coinvolgimento di tutti allo stesso modo, la possibilità di riprovarci in caso di sconfitta; stimola l'impegno e l'agonismo, ma allo stesso tempo sdrammatizza la competizione e il risultato. Chi è stato con noi domenica lo ha sperimentato in prima persona.
Sono queste sensazioni positive che permetteranno ai futuri agonisti di gestire positivamente i livelli di impegno sempre più alti (si spera) richiesti dalle competizioni.
E a chi continuerà a fare karate per il piacere di stare bene con sé stesso e assieme ai compagni, daranno stimolo a continuare con lo stesso entusiasmo.
Quello che abbiamo avuto domenica e che avremo nelle prossime occasioni insieme.